Repertorio informatizzato delle fonti documentarie e letterarie della Sardegna

Repertorio informatizzato delle fonti documentarie e letterarie della Sardegna

Secolo XI – IV

Condague (1) della consacrazione della chiesa di S. Maria di Tergu o di Cerigo (2).

(…)

Da apografo esemplato sull’autografo della chiesa ampuriense (3).

In su annu de su Segnore nostru Jesu Xptu de…VII (4) furunt mandados in corte de Roma donnu Gunnari Crabinu, donnu Juanne Crabinu qui furunt de Putu Maiore et de Unnanuau (5) profaguer venner unu cardinale de sa corte de Roma, qui deveret consagrare sa ecclesia de sancta Maria de Tergu, sa quale aviat cresquidu su judague Gunnari de Laccon (6), et cando furunt in corte de Roma sos anteditos fesint suplicatione a su sanctu patre (7) qui los fesit venner a demnantis suo, et intesa sa demanda issoro fesit consigiu cum sos cardinales suos, quales deliberant mandare in Sardingia unu cardinale qui fuit de Italia, qui se nomenavat Joanne qui fuit episcopu et cardinale (8); et missos qui furunt in su mare, venisit in Sardingia et fesit terra in Ampurias in sa fogue de coquinas (9), et venisit in corte de nostra signora de Tergu, et furunt a numero bator archiepiscopos, XVIII episcopos, et XVII abades; et consacrada qui apisit su dictu cardinale sa dicta ecclesia posit de perdonu annos degue migia, sos archiepiscopos dies ottanta, sos episcopos dies baranta per ipsos cadannu, su quale perdonu bolsit qui duraret per totu sos dies de su annu, et doppiat custu perdonu dae su vesperu dessa consagracione de cussa ecclesia de santa Maria de Tergu infini de sas octavas, et doppiat cussu perdonu da essa prima dominica dessa pasca de resurectione, et per tottu sas festas dessos apostolos cum sas octavas. Et consagrada qui fuit issa dicta ecclesia de santa Maria de Tergu, morgisit issu dictu cardinale, et fuit sotterratu intro issa dicta ecclesia a manu dextra a dies bator de triulas dessu annu supradictu. Et totu sos perdonos confirmavit papa Tamasiu (10).

NOTE

(1) Condague è parola sarda di antichità molto remota, che pervenne fino a noi con pochissime alterazioni. Pronunziasi comunemente condaghe, e significa libro di ragioni e di rendite, custodito negli archivii delle chiese e dei monasterii. La sua etimologia si trova nei verbi latini condere e recondere, come lo notò l’Olives nelle sue chiose alla Carta de logu (carta locale) di Eleonora di Arborea. Condaces, egli scrive, in lingua materna sarda dicuntur libri antiqui, qui utplurimum reperiuntur in ecclesiis, quarum saltus et redditus atque iura sunt descripta in istis libris. Et appellantur in dicta lingua condagium, et puto sic dici et appellari ab ethimologia a condo et recondo etc. (Comment. in cap. XXV Cart. loc., num. 6, pag. 59, ediz. sassar. MDCXVII, in-fol.). Le chiese ed i monasterii principali dell’isola possedevano i particolari loro condagui o condaghi, e li custodirono gelosamente fino a tutto il secolo XVI; poiché il Fara e l’Olives, che viveano nel declinare dello stesso secolo, ne fanno ricordo come di libri tuttavia esistenti al loro tempo; e il secondo di detti scrittori, laddove parla degli antichi giudici o regoli sardi, dice queste parole: Sed isti judices sardi erant reges…et pluries istorum judicum sardorum se nominaverunt reges, ut patet per quamplurima documenta authentica et antiqua super aliquibus dotationibus ecclesiarum regni Sardiniae, ut est videre per quosdam libros antiquos et authenticos aliquarum insignium ecclesiarum, qui libri in lingua materna sarda appellantur condagues, condagui, etc. (Comment. in prooëm. Cart. de log., n° 11, pag. 3, ediz. pred.). Alcuni ne esistevano ancora nel secolo XVII, come si ricava dalla storia del Vico (Historia general del reyn. de çerd.), e dagli Annali del Vidal (Annales Sardiniae), ed altri pochi, ma rarissimi, nel secolo XVIII. Poi però, sia per la decadenza delle stesse chiese, che per l’incuria dei sacerdoti succeduti ai monaci nel governo degli antichi monasteri, i condagui originali andarono miseramente perduti, e rimasero solamente alcuni apografi, i quali ci pervennero per mezzo di nuove copie stranamente mutilati, e, ciò che è peggio, pieni di errori e di anacronismi. La perdita dei condagui autografi è veramente deplorabile, poiché i medesimi, sebbene fossero principalmente libri di conti e di ragioni, nei quali erano registrati i redditi delle chiese e dei monasteri, erano però al tempo stesso un deposito assai prezioso della storia e della lingua sarda nel medio evo. Vi era infatti in ogni condague la narrazione compendiosa della fondazione del luogo pio od ecclesiastico cui apparteneva, la genealogia del fondatore e dei donatori, che per lo più erano i regoli o giudici sardi; le loro azioni private, le loro imprese, ed alcuni atti eziandio del loro governo: e tuttociò scritto in lingua vernacola, ed a poca distanza dai tempi nei quali erano succeduti i fatti che vi si riferivano. Gli scrittori e compositori dei diversi condagui locali furono probabilmente i monaci dei secoli XII e XIII, e forse anche alcuni dell’XI, giacché la più antica notizia che si abbia sul monachismo sardo, dopo il mille, è quella contenuta nella donazione delle chiese di santa Maria di Bubalis e di S. Elia di Montesanto, fatta nel 1064 da Barisone I re di Torres (ved. infra n° VI). Essi erano in quel tempo, e specialmente nel finire dell’XI e nel cominciare del XII secolo, i soli o quasi soli, che nell’isola sapessero leggere e scrivere; e questa circostanza congiunta all’adulazione verso i loro benefattori, che li aveano straordinariamente arricchiti con amplissime donazioni, e che dominavano con potenza barbarica sopra un popolo avvilito dalla schiavitù, furono senza dubbio le cause primarie, per le quali frammezzo alle verità istoriche dei condagui si trovano spesso racconti accessionali al tutto falsi o grandemente esagerati. Tuttavia è fuor di dubbio che questi monumenti, o cronache vogliano appellarsi, hanno sparso una gran luce sulle antiche vicende storiche della Sardegna, le quali sarebbero altrimenti sepolte in perpetua oscurità.

(2) Il titolo suo primitivo era di S. Maria in Jerico, che fu poi convertito in Cerigo, e quindi più corrottamente in Terigo o Tergo (sard. Tergu). Questa chiesa, situata in ampia pianura tra la città di Castel-Sardo ed il villaggio di Osilo, diventò abaziale verso la metà del secolo XII, perché vi fu edificato in contiguità un monastero dell’ordine di S. Benedetto, il quale era dotato di ampie rendite, e governato da un abate. Ma poi, essendo stata abbandonata dai monaci negli anni estremi del secolo seguente, fu unita col monastero e sue dipendenze alla mensa dell’arcivescovado turritano. Ciò accadde nel 1444, tre anni dopo la traslazione della sede arcivescovile da Torres a Sassari, decretata da papa Eugenio IV. L’arcivescovo Pietro Spano divisava di applicarne i frutti al seminario di chierici ch’era sul punto di erigere in Sassari verso la metà del secolo XV; ma prevenuto dalla morte, non poté accompiere questo suo generoso pensamento (ved. Tola, Dizion. biogr. dei Sardi ill., vol. III, pag. 231, art. Spano Pietro). Una bolla del pontefice Giulio II, in data del 26 novembre 1503, colla quale furono recate ad effetto le unioni e le traslazioni di alcuni seggi vescovili dell’isola, già decretate dal suo predecessore Alessandro VI, ad istanza del re Ferdinando il cattolico, aggregò la suddetta abazia alla sede di Ampurias, che nello stesso anno trasferivasi al castello aragonese (odierno Castel-Sardo). Quindi i vescovi ampuriensi assunsero, fra gli altri titoli, quello di abati di S. Maria di Cerigo, che conservarono fino al presente, ed esercitarono d’allora in poi tutti gli atti di giurisdizione spirituale dipendenti da tale unione. Uno di questi atti fu la percezione delle decime personali per l’amministrazione dei sacramenti; ma la riscossione delle decime reali fu loro contrastata in tempi diversi dal pievano della villa e borgo d’Osilo, e dall’arciprete turritano. Il primo elevò le sue pretese nel 1581, e con sentenza arbitramentale del 30 ottobre di detto anno ottenne le decime reali dei coloni osilesi stanziati nelle pianure di Santa Maria di Cerigo e di S. Andrea di Bualis, riservate al vescovo di Ampurias le altre dei coloni nulvesi. Il secondo mosse la lite nel 1743, ma il vescovo di Ampurias fu mantenuto nella pacifica possessione di esigere tutte le decime sì reali che personali con due successivi giudicati, uno del 1745 proferto dalla curia ecclesiastica ampuriense, e l’altro del 1757 pronunziato in grado di appello dalla curia metropolitana di Sassari. Il giudice apostolico di appellazioni e gravami dichiarò nulli questi due giudicati con sua sentenza del 1760. Però avendone il vescovo ampuriense appellato a Roma, ottenne la conferma della possessione pacifica nella riscossione di tali decime, ciò che pure era stato pronunziato un secolo prima a di lui favore, ed in contraddittorio dell’arcivescovo di Sassari, dalla santa Rota romana con sentenza del 15 gennaio 1627. Tutti i documenti comprovanti la serie di questi fatti sono custoditi nell’archivio capitolare della chiesa cattedrale di Castelsardo.

(3) L’autografo del presente condague, che chiamo ampuriense, perché custodivasi nell’antica chiesa di S. Pietro di Ampurias, prima che la sede vescovile fosse trasferita al castello aragonese, non esiste più. Se ne hanno solamente alcuni apografi, fra i quali ne ho consultato due che diconsi esemplati dall’originale. Uno è quello fatto levare nel 1648 dal vescovo di Ampuria e Civita, D. Gavino Manca, che conservasi tuttavia nell’archivio suddetto della cattedrale di Castelsardo; l’altro quello che fu copiato dall’arciprete, e poi arcivescovo turritano, D. Giambattista Simon, nel 1780. Io ho seguito di preferenza la lezione di quest’ultimo, perché mi è sembrato più corretto, e, sopra ciò fatto da un uomo dottissimo delle antichità sarde, come può vedersi nel vol. III del mio Dizionario biografico dei Sardi illustri, pag. 185, art. Simon Giambattista.

(4) L’apografo del Manca nota in cifre arabiche l’anno 417, lo che è un errore patentissimo che non merita confutazione. L’apografo simoniano invece segna con puntini la lacuna di varie parole e numeri esistenti nell’originale, e riporta il solo VII romano che era tuttavia visibile nell’autografo. Ciò indica chiaramente che l’anno della carta debb’essere o il 1027 di cui, nel caso, il suddetto VII romano sarebbe la terminazione, o il 1024 al quale corrisponde esattamente la indizione settima. Queste due date si accordano co’ fatti e colle memorie di Gonnario I di Torres.

(5) Unnanuau. Forse è questo il nome primitivo dell’attuale villaggio di Bunnanaro nella diocesi di Sassari.

(6) Gonnario I di Torres. Da lui comincia la serie dei regoli turritani.

(7) Cioè papa Benedetto VIII, cui il cronista dà il titolo di santo padre (sanctu patre).

(8) I cardinali chiamati a consiglio dal pontefice, e questo vescovo e cardinale sono certamente una giunta fatta dal pio scrittore della cronaca per magnificare l’atto della consacrazione; locchè pure dee dirsi dei quattro arcivescovi, diciotto vescovi e diciassette abati, dei quali si compone a un dipresso il corteo dell’inviato pontificio.

(9) Fiume di Coguinas.

(10) Nell’apografo ampuriense leggesi Jelasiu, ma io preferisco la lezione simoniana Tamasiu, perché sembrami più naturale che la conferma dei privilegi accordati alla chiesa di S. Maria di Tergu sia stata immediata o molto vicina al tempo della sua consacrazione, e quindi impartita da papa Damaso II (Tamasiu) asceso al pontificato nel 1048, anziché da papa Gelasio II che fu creato pontefice nel 1118. Questa opinione è convalidata dal medesimo apografo ampuriense, nel quale si leggono le concessioni di nuove indulgenze fatte dai pontefici Leone IX, Alessandro II, Vittore III e Innocenzo II, le quali non possono essere anteriori agli anni 1049, 1061, 1086 e 1130, che sono i primi della rispettiva loro assunzione alla cattedra di S. Pietro. Debbo però notare che le aggiunte di queste nuove concessioni sono di autore posteriore allo scrittore del condague, ed oltre a ciò piene di anacronismi e di falsità, fra le quali basterà accennare la venuta dello stesso papa Leone con quarantaquattro vescovi, quattro patriarchi e molta chieresìa romana alla detta chiesa di S. Maria di Tergu per riconsacrarla, l’uffizio di abate sostenuto da Desiderio, che fu poi pontefice sotto nome di Vittore III, e le indulgenze accordate alla stessa chiesa dal papa S. Simmaco nativo di Sardegna. Il rimanente del condague è perduto.