Lettera di Giovanni, monaco di Sardegna, a Riccardo abate del monastero di s. Vittore di Marsiglia, colla quale gli dà notizia della scomunica fulminata nel concilio provinciale di Torres contro Torchitorio regolo di Gallura, e lo richiede insieme dei suoi consigli.
(1089…(1))
Dal Martene e Durand, Veter. script. et monument. collect., tom. I, col. 522-23.
Domino ac reverendissimo r. cardinali s. romanae ecclesiae, atque cunctae congregationis monasterii massiliensis abbati, Joannes servus…indignus monachus vester apud Galluri fideles horationes. Volo vobis notificare, et indicare, domine pater, quod adversum nobis est in hac terra in qua sumus. Scitis vos, carissime pater, quod domnus papa anathematizavit iudicem Torquitorem, et cunctam regionem suam, ita ut nullus christianus det ei consilium, neque osculum pacis, et ave ei nullus christianus dicere praesumat, et ipse superbus et profugus semper in errore suo perseverat, et ad gremium sanctae ecclesiae revertere nollet. Super omnia ista misit domnus papa legatum suum aput Sardiniae, et iam archiepiscopum pisano viro prudentissimo benit aput Turris, vocavit archiepiscopos et episcopos Sardiniae ut venirent ad sanctam Synodum. Venerunt omnes in hunc locum, et vocaverunt ex parte apostolica istum ereticum, ut reverteretur ad gremium sanctae matris ecclesiae: sed iste maledictus et impurissimus tyrannus obduratus est sicut lapis adamantinus, ut nullus ferre, neque accedere in eum potest. Fecit itaque, ut archiepiscopi et episcopi omnes contristati sunt valde, et clamabant una voce omnes: anathematiza, anathematiza. Et confirmavit legatus et episcopi cum concilio omnes princepes Sardiniae praecepta apostolica, maledixerunt et condemnaverunt eum, et traxerunt in potestate daemoniorum (2). Modo, magister et pater, nos sumus in hac tribulatione, et nescimus quid faciamus. Rogamus et obsecramus, carissime domine, ut tale consilium mittatis nobis, sicut pater bonus, qui faciat salva anima et corpora nostra: quia nos magnam verecundiam habemus, quod oculos humanos digito demonstrat nobis, ecce illos qui participant cum illo eretico, et nos sumus in magna tribulatione et angustia, non tantum propter nos, sed etiam propter infamiam malam nostro monasterio. Adhuc omnia sustinemus pro vestra obedientia, sed unum pondus adversum nobis est, quod non possumus sustinere de isto scomunicato, qui narat nobis: si vultis fieri mecum in terra mea, sciatis hunc in veritate, quod ego volo ut nemo divinum officium faciatis, sed tantum non vultis facere hoc, exite de terra et cognatione mea, et de re vestra nullum vobis dabo, nisi tantum vestimenta. Modo de istum volumus habere vestrum consilium, quomodo faciamus ad honorem Dei, et de nostro monasterio, et ecclesiae Romanae (3). Et de alia causa volo vos dicere modo de fratre Oberto, quem ego misi anno praeterito ad vos cum illa paupertate quam dominus mihi donare placuit, scilicet CCCL. sol. de Lucensis audivi de hoc, quod tristatum valde, quod monasterius noster non habuit nisi C. solidos, et facio de vos, pater, multum minum de hoc quod fecistis: quod ego mandavi fratrem Obertum juniorem, et vos misistis illum mihi priorem sine literis vestris, et sine aliquo testimonio, et ego non credo, quoniam amplius non vidi in Sardiniam (4). Modo mandate mihi omnia citius, ita ut ego faciam per literis nostris cognitis. Vale.
NOTE
(1) Sebbene il Mattei nell’Appendice alla storia della chiesa pisana sia di opinione, che la presente epistola appartenga all’anno 1092 (Hist. eccles. pisan. append. monum. n° VI, pag. 14 e seg.), tuttavia io seguo di preferenza l’opinione del Martene e del Mansi, che la riferiscono all’anno 1089 (Martene e Durand, oper. cit. tom. I, pag. 19 e 20, col. 522-23. – Mansi, Sacr. concil. nov. et ampliss. collect., tom. XX, col. 717-18-19). Infatti la ragione, per cui il Mattei rimosse dal 1089 la data di questo documento, si riduce alla qualificazione metropolitica ascritta nell’epistola al vescovo di Pisa, convocatore e capo del concilio provinciale di Torres; qualificazione ch’egli crede non poter essere anteriore al 1092. Ma io osservo in contrario, che nel 28 giugno 1091, colla bolla che comincia Cum omnes, riportata dal Dal-Borgo nei Scelti diplomi pisani (pag. 270-71) e coll’altra bolla del 21 aprile 1092, pubblicata dallo stesso Dal-Borgo (oper. cit. , pag. 198-99 e 200), il papa Urbano II eresse la chiesa pisana al grado di metropoli dell’isola di Corsica, non già della Sardegna, creandone arcivescovo Daiberto o Dagoberto: e che non esiste, o almeno non è stata finora rinvenuta dagli eruditi la bolla, con cui dallo stesso pontefice fu conceduto all’arcivescovo di Pisa l’onore e il diritto della legazione perpetua nell’isola di Sardegna. Si è dalla bolla posteriore di papa Innocenzo II (1° maggio 1138), che ricavasi tal notizia, poiché colla medesima egli conferma a Baldovino arcivescovo pisano la detta legazione già conceduta ai suoi predecessori dal pontefice Urbano II (a praedecessore nostro papa Urbano praedecessoribus tuis concessam); ma l’anno della concessione non vi è indicato. Quindi è una semplice conghiettura del Mattei il riferirla al 1092, anno medesimo in cui fu accordata al vescovo pisano la dignità metropolitica sulle chiese della Corsica. Non potea forse essere stata anteriore a quella sulla Corsica la legazione in Sardegna? E non ne aveva già dato l’esempio il papa Gregorio VII predecessore di Urbano II, conferendo somiglianti poteri a Costantino arcivescovo di Torres e a Guglielmo vescovo di Populonia? (ved. sopra num. X. XI e XII). La possibilità poi diventa certezza se si esaminano attentamente i documenti pubblicati dal Martene e Durand. Ed in vero nel diploma di fondazione del monastero di S. Saturnino (ved. sopra num. XVII), tra gli altri magnati intervenuti a tale atto di munificenza e di pietà del regolo Costantioo vi è Lamberto arcivescovo: Ego Lambertus archiepiscopus huius rei inceptor et praeceptor, ac secundum Dominum consiliator fui, atque canonice subscripsi, anathema firmavi. Ora questo Lamberto, che il Mattei colloca tra gli arcivescovi cagliaritani prima di Ugone (Sard. sacr., pag. 86), a me sembra invece che il Daiberto o Dagoberto arcivescovo di Pisa, cui fu primamente conceduta la legazione perpetua io Sardegna. Imperocchè i cronisti pisani e i monumenti sacri e profani della repubblica di Pisa messi in luce dal Muratori (Rer. ital. script., tom. III e IV), dal Dal-Borgo (oper. cit.), e dallo stesso Mattei (Hist. eccles. Pisan.), lo appellano promiscuamente Dagoberto, Daimberto, Daiaberto, Elaiberto, Vamberto e Lamberto; e il canonico Ottavio d’Abramo lo dice uscito ab illustri Lanfrancorum prosapia de Rubeis nuncupata (ved. Tempesti, Elog. di Daiberto arcivesc. di Pisa, pag. 17 e 18, not. 1 e 2, ediz. pis. 1792). E che il Lamberto, soscrittore dell’atto di fondazione del monastero di S. Saturnino non fosse arcivescovo di Cagliari, si ricava, non solamente dall’altra fondazione, che pochi mesi prima, cioè nel 20 giugno 1089, fece lo stesso Costantino del monastero dei Ss. Giorgio e Genesio, cui non si vede sottoscritto Lamberto, né verun altro arcivescovo cagliaritano, bensì i vescovi di Dolia e di Solci; ma risulta eziandio dalla conferma di dette due fondazioni fatta nel 22 aprile 1090, ossia dopo un anno non giusto, da Ugone arcivescovo di Cagliari. Infatti, più che altra qualunque, era necessaria nell’atto di fondazione del monastero dei Ss. Giorgio e Genesio la soscrizione dell’arcivescovo cagliaritano, per trattarsi di due chiese esistenti nella sua diocesi, e sottoposte alla sua giurisdizione; e d’altra parte Ugone, nel confermare la donazione fatta da Costantino al monastero di S. Saturnino, non avrebbe tralasciato di rammentare, che di quella donazione era stato inceptor, conciliator et praeceptor l’arcivescovo Lamberto, se costui fosse stato suo immediato antecessore. La natura dell’atto, e il tempo assai prossimo in cui era stata fatta quella donazione dal regolo di Cagliari con intervento di Lamberto, richiedevano, senza meno, che Ugone ne facesse menzione nell’atto di conferma. Eppure usò sopra di ciò assoluto silenzio; lo che indica assai chiaramente che Lamberto non era stato suo predecessore nella sede cagliaritana. Inoltre l’anno 1089 da me assegnato alla presente carta concorda benissimo coll’assunzione di Lamberto o Daiberto al vescovado di Pisa, la quale, secondo lo stesso Mattei, accadde nell’anno 1088 (His. eccles. pis., tom. I, pag. 174 e seg.); ed oltre a ciò è provato eziandio dalla bolla del 12 luglio 1089, colla quale papa Urbano II comanda a Rustico e Martino, priori di Vallombrosa e di Camaldoli, di prestare obbedienza a Dagoberto vescovo di Pisa, che dalla di lui comunione, dopo la di lui elezione, si erano per troppa semplicità separati. Dunque nel 1089 era vacante la sede cagliaritana, e nello stesso anno Daiberto o Lamberto vescovo di Pisa esercitò di fatto in Sardegna la legazione concessagli dal pontefice Urbano II, e intervenne alla fondazione del monastero di S. Saturnino, e convocò il concilio turritano, e scomunicò Torgodorio regolo di Gallura, secondo la narrazione contenuta nella lettera del monaco Giovanni. Dunque, per dir breve, la bolla con cui Urbano II concedette a Daiberto o Lamberto la legazione in Sardegna, è del 1089, o forse dell’anno precedente 1088, ed in virtù di questa legazione appunto può egli aver usato il titolo di arcivescovo nel già citato diploma di Costantino del 1089, e averglielo dato il monaco Giovanni nella epistola indirizzata a Riccardo abate di S. Vittore di Marsiglia. Lo che tutto io confermo coll’autorità del Fara, del Vico, del Machin e degli altri antichi scrittori sardi, i quali non fanno menzione nessuna di Lamberto nella serie degli arcivescovi cagliaritani.
(2) Quale fosse l’eresia e quali i delitti commessi da Torchitorio, per meritare un anatema così solenne, non appare dal presente documento. Ma il Martene e il Durand conghietturano (oper. cit., pag. 19, col. 522, tom. I), ch’egli seguisse le parti dell’imperatore Arrigo IV nello scisma cagionato dall’antipapa Guiberto, ovvero che volesse ritener per forza le investiture delle chiese, che i papi Gregorio ed Urbano II si sforzavano togliere ai principi secolari, o finalmente ch’egli fosse simoniaco, come lo erano quasi tutti i piccoli dinasti de’ suoi tempi. Qualunque sia il vero, egli è certo che Torchitorio non dovette essere buon principe, se vuolsi prestar fede a quanto ne lasciò scritto nella presente epistola il monaco Giovanni di Gallura. Di questo regolo ho parlato più diffusamente nel Dizionario biografico dei Sardi illustri, vol. III, pag. 216-62.
(3) Da questo tratto della epistola si ricava che esisteva in Gallura un monastero della regola di S. Benedetto, dipendente da quello di S. Vittore di Marsiglia; che il monaco Giovanni ne avea il governo allorché scrisse questa lettera; e che Torchitorio, dopo essere stato colpito dalla scomunica, vessò iniquamente i monaci galluresi, obbligandoii a celebrare i divini uffizi, e minacciandoli, se non obbedissero, di sequestrare i loro beni, e di cacciarli dai suoi stati colle sole vestimenta.
(4) Il monaco Giovanni approfittò dell’occasione di questa lettera, per far note all’abate Riccardo le faccende del monastero di Gallura, fra le quali erano le principali i trecentocinquanta soldi lucchesi inviatigli con frate Oberto, e l’uffizio di priore accordato od usurpato da frate Oberto juniore.